Perché sentiamo l’esigenza di aiutare
le persone?
Questa attitudine può essere
considerata una caratteristica in noi innata a livello biologico, tant’è vero
che siamo una delle poche specie capaci di empatizzare precocemente con i
nostri simili.
Recenti studi hanno scoperto che
esistono dei neuroni, chiamati neuroni specchio, che riproducono la
stessa attività cerebrale che di ciò che sentiamo, cioè di fronte all’attività
o comportamento di un'altra persona attiviamo le stesse aree cerebrali cui è
legata quell’attività o comportamento (ad es. la persona di fronte a me sta
bevendo un bicchiere d’acqua: io in misura minore attiverò quelle stesse aree
cerebrali interessate).
Proprio per questo, quando ci troviamo
di fronte ad una persona che soffre proviamo sofferenza anche noi, pur non
essendo implicati nella condizione di dolore di questa, percepiamo l’impatto
emotivo della situazione.
Bisogna considerare che ciò che ci
spinge ad aiutare l’altro non è solo un bisogno altruistico, ma anche un
bisogno egoistico.
Quest’ultimo non va inteso in senso
negativo, anzi, un sano egoismo è la base per aiutare efficacemente gli
altri: quando si aiuta l’altro si deve ricordare che la persona in difficoltà
ha bisogno di qualcuno che abbia un “io” forte, cioè una buona conoscenza di sé
delle sue dinamiche e di cosa sta cercando, o che comunque sia consapevole di
essere alla ricerca di una motivazione.
Se manca questa consapevolezza si
possono causare danni alla persona che invece si voleva aiutare.
I rischi nella relazione d’aiuto sono molteplici e dovuti alla grande
responsabilità che ci veniamo ad assumere quando qualcuno ci affida un momento
difficile della sua vita e chiede a noi di aiutarlo a venirne fuori.
A partire da questo momento ci
troviamo esposti a tutta una serie di fattori: il senso d’impotenza, la
pressione delle aspettative che il contesto ha su di noi, in specifico quelle
dei genitori o parenti sulla guarigione del figlio.
Tali pressioni possono portarci a
sbagliare per dimostrare di essere capaci e ciò non è utile all’altro perché in
realtà non lo stiamo aiutando né a noi (in questo caso si parla di curatore
ferito).
Un primo errore che si può fare è quello di sostituirci all’aiutato nel
risolvere un suo problema, piuttosto che sostenerlo e fornirgli i mezzi
necessari a superarlo da solo, qualora ne siamo capaci.
Alice Miller (psicoterapeuta) afferma nel suo
libro “Il dramma del bambino dotato” che è la persona che aiuta la prima ad
avere bisogno di aiuto. Solitamente chi ha predisposizione ad ascoltare molto
gli altri, ha sviluppato questa capacità sin da piccolo. La Miller, al
riguardo, fa spesso l’esempio del “bravo bambino”: un bambino che ha dovuto
sempre rispondere alle aspettative del contesto attorno (genitori, insegnanti
ecc.) svilupperà una predisposizione a sintonizzarsi sullo stato d’animo
dell’altro perché percepisce ciò che vuole l’altro. Il pericolo è, in questo
caso, che si perda di vista cosa si vuole veramente perché troppo concentrati
nel rispondere alle esigenze altrui e in questo modo si viene a perdere una
parte di se stessi a causa delle continue rinunce. La soluzione ottimale è
quella di cercare un equilibrio: essere consci di questa situazione avendo al
contempo un occhio interno, cioè rimanendo sempre in contatto con i propri
bisogni.
Tornando alla relazione d’aiuto, l’altruismo,
che ne è alla base, è una forma di difesa molto più evoluta dell’angoscia,
perché rafforza l’autostima, ci fa sentire utili, ma non è un male se gestito
bene; costituisce invece un problema quando è prevaricante e ci spinge a fare
di più di quello che l’altra persona ci sta chiedendo, proponendo situazioni
che l’aiutato non riesce a superare o cercando di risolvere problemi
irrisolvibili. In questo caso l’errore sta
nel perdere il contatto con i bisogni dell’altro.
Una cosa fondamentale nella relazione
d’aiuto è avere sempre persone con cui confrontarci, nel senso che la persona in
difficoltà siamo anche noi e ci vuole sempre qualcun altro con più esperienza e
competenza che ci dà la sua opinione e ci aiuta a capire cos’è che noi siamo
chiamati a fare e come operare.
In mancanza il rischio è quello di
andare incontro al burn out,
presente in tutte le forme di relazione d’aiuto, che causa la nostra morte
simbolica come “care giver”. Normalmente quando si aiuta l’altro si parte con
un carico d’entusiasmo e di attese, ma arriva un momento in cui necessariamente
ci si trova ad affrontare situazioni statiche che provocano frustrazione
rabbia e quindi insoddisfazione. E’ a questo punto che diventa
fondamentale una figura di riferimento con cui confrontarsi, in mancanza la
situazione non può che degenerare anche a scapito dell’aiutato: se per la
situazione di difficoltà ci si chiude in un atteggiamento di allontanamento
dalla persona aiutata, dopo averci instaurato un rapporto duraturo ed essere
entrati nel suo mondo, l’impatto è molto negativo per quest’ultima, ciò perché
col tempo si diventa una presenza di riferimento per l’aiutato che ha
interiorizzato la nostra figura.
In tali situazioni vengono ad
accumularsi sentimenti come rabbia, distacco emotivo e insofferenza sia verso i
colleghi sia verso l’aiutato e i suoi familiari fino a portarci ad un
allontanamento tale da essere inservibili come aiutatori. Tutto ciò si
ripercuote anche sulla vita di tutti i giorni perché questo bagaglio lo
portiamo anche a casa e può portarci a essere cinici con le persone a cui
teniamo e anche a estrometterle: per questo è fondamentale avere una persona di
riferimento per esprimere queste sensazioni e sentimenti, in modo da
alleggerire il carico di pressione che si sta portando.
Un modo per affrontare il problema sta
anche nella ricerca spirituale perché, come sosteneva Jung, questa ci porta ad
una più profonda riflessione e quindi ad una migliore conoscenza del nostro sé.
I sintomi del burn out non sono
chiaramente visibili, perlopiù si manifestano in forma di velata
insoddisfazione nel non capire più cosa si sta facendo esattamente, discussioni
su aspetti collegati all’attività (ad es. stipendio, familiari dell’aiutato,
colleghi ecc.), il parlare continuamente del proprio lavoro negli altri ambiti
di vita; si innesca così una spirale che ci porta a stare sempre più male sia
nell’ambiente di lavoro sia con gli altri in generale e può sfociare anche in
un’aggressività mal indirizzata.
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