martedì 20 novembre 2012

Incontro Ra.Mi. - 20 NOVEMBRE 2012

"Giuseppe Caserta"


Il guaritore ferito / La relazione d'aiuto




Perché sentiamo l’esigenza di aiutare le persone?
Questa attitudine può essere considerata una caratteristica in noi innata a livello biologico, tant’è vero che siamo una delle poche specie capaci di empatizzare precocemente con i nostri simili.
Recenti studi hanno scoperto che esistono dei neuroni, chiamati neuroni specchio, che riproducono la stessa attività cerebrale che di ciò che sentiamo, cioè di fronte all’attività o comportamento di un'altra persona attiviamo le stesse aree cerebrali cui è legata quell’attività o comportamento (ad es. la persona di fronte a me sta bevendo un bicchiere d’acqua: io in misura minore attiverò quelle stesse aree cerebrali interessate).
Proprio per questo, quando ci troviamo di fronte ad una persona che soffre proviamo sofferenza anche noi, pur non essendo implicati nella condizione di dolore di questa, percepiamo l’impatto emotivo della situazione.

Bisogna considerare che ciò che ci spinge ad aiutare l’altro non è solo un bisogno altruistico, ma anche un bisogno egoistico.
Quest’ultimo non va inteso in senso negativo, anzi, un sano egoismo è la base per aiutare efficacemente gli altri: quando si aiuta l’altro si deve ricordare che la persona in difficoltà ha bisogno di qualcuno che abbia un “io” forte, cioè una buona conoscenza di sé delle sue dinamiche e di cosa sta cercando, o che comunque sia consapevole di essere alla ricerca di una motivazione.
Se manca questa consapevolezza si possono causare danni alla persona che invece si voleva aiutare.

I rischi nella relazione d’aiuto sono molteplici e dovuti alla grande responsabilità che ci veniamo ad assumere quando qualcuno ci affida un momento difficile della sua vita e chiede a noi di aiutarlo a venirne fuori.
A partire da questo momento ci troviamo esposti a tutta una serie di fattori: il senso d’impotenza, la pressione delle aspettative che il contesto ha su di noi, in specifico quelle dei genitori o parenti sulla guarigione del figlio.
Tali pressioni possono portarci a sbagliare per dimostrare di essere capaci e ciò non è utile all’altro perché in realtà non lo stiamo aiutando né a noi (in questo caso si parla di curatore ferito).

Un primo errore che si può fare è quello di sostituirci all’aiutato nel risolvere un suo problema, piuttosto che sostenerlo e fornirgli i mezzi necessari a superarlo da solo, qualora ne siamo capaci.

Alice Miller (psicoterapeuta) afferma nel suo libro “Il dramma del bambino dotato” che è la persona che aiuta la prima ad avere bisogno di aiuto. Solitamente chi ha predisposizione ad ascoltare molto gli altri, ha sviluppato questa capacità sin da piccolo. La Miller, al riguardo, fa spesso l’esempio del “bravo bambino”: un bambino che ha dovuto sempre rispondere alle aspettative del contesto attorno (genitori, insegnanti ecc.) svilupperà una predisposizione a sintonizzarsi sullo stato d’animo dell’altro perché percepisce ciò che vuole l’altro. Il pericolo è, in questo caso, che si perda di vista cosa si vuole veramente perché troppo concentrati nel rispondere alle esigenze altrui e in questo modo si viene a perdere una parte di se stessi a causa delle continue rinunce. La soluzione ottimale è quella di cercare un equilibrio: essere consci di questa situazione avendo al contempo un occhio interno, cioè rimanendo sempre in contatto con i propri bisogni.

Tornando alla relazione d’aiuto, l’altruismo, che ne è alla base, è una forma di difesa molto più evoluta dell’angoscia, perché rafforza l’autostima, ci fa sentire utili, ma non è un male se gestito bene; costituisce invece un problema quando è prevaricante e ci spinge a fare di più di quello che l’altra persona ci sta chiedendo, proponendo situazioni che l’aiutato non riesce a superare o cercando di risolvere problemi irrisolvibili. In questo caso l’errore sta nel perdere il contatto con i bisogni dell’altro.

Una cosa fondamentale nella relazione d’aiuto è avere sempre persone con cui confrontarci, nel senso che la persona in difficoltà siamo anche noi e ci vuole sempre qualcun altro con più esperienza e competenza che ci dà la sua opinione e ci aiuta a capire cos’è che noi siamo chiamati a fare e come operare.
In mancanza il rischio è quello di andare incontro al burn out, presente in tutte le forme di relazione d’aiuto, che causa la nostra morte simbolica come “care giver”. Normalmente quando si aiuta l’altro si parte con un carico d’entusiasmo e di attese, ma arriva un momento in cui necessariamente ci si trova ad affrontare situazioni statiche che provocano frustrazione rabbia e quindi insoddisfazione. E’ a questo punto che diventa fondamentale una figura di riferimento con cui confrontarsi, in mancanza la situazione non può che degenerare anche a scapito dell’aiutato: se per la situazione di difficoltà ci si chiude in un atteggiamento di allontanamento dalla persona aiutata, dopo averci instaurato un rapporto duraturo ed essere entrati nel suo mondo, l’impatto è molto negativo per quest’ultima, ciò perché col tempo si diventa una presenza di riferimento per l’aiutato che ha interiorizzato la nostra figura.
In tali situazioni vengono ad accumularsi sentimenti come rabbia, distacco emotivo e insofferenza sia verso i colleghi sia verso l’aiutato e i suoi familiari fino a portarci ad un allontanamento tale da essere inservibili come aiutatori. Tutto ciò si ripercuote anche sulla vita di tutti i giorni perché questo bagaglio lo portiamo anche a casa e può portarci a essere cinici con le persone a cui teniamo e anche a estrometterle: per questo è fondamentale avere una persona di riferimento per esprimere queste sensazioni e sentimenti, in modo da alleggerire il carico di pressione che si sta portando.
Un modo per affrontare il problema sta anche nella ricerca spirituale perché, come sosteneva Jung, questa ci porta ad una più profonda riflessione e quindi ad una migliore conoscenza del nostro sé.

I sintomi del burn out non sono chiaramente visibili, perlopiù si manifestano in forma di velata insoddisfazione nel non capire più cosa si sta facendo esattamente, discussioni su aspetti collegati all’attività (ad es. stipendio, familiari dell’aiutato, colleghi ecc.), il parlare continuamente del proprio lavoro negli altri ambiti di vita; si innesca così una spirale che ci porta a stare sempre più male sia nell’ambiente di lavoro sia con gli altri in generale e può sfociare anche in un’aggressività mal indirizzata.

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