martedì 27 novembre 2012

Incontro Ra.Mi. - 27 NOVEMBRE 2012

"Io sono colloquio"


Comunicazione e comportamento

(2° incontro del corso di formazione Ra.Mi.) 

 

 

Scrittura Creativa



Quando si svolge attività nel sociale, le tante esperienze che ci si trova a vivere vengono, ad un certo punto, a sovrapporsi, di conseguenza diventa difficile anche riuscire a distinguere l’emozione provata in una situazione piuttosto che in un'altra: paradossalmente l’altra faccia dell’altruismo che si manifesta nell’incontro continuativo con l’altro consiste nel cadere in un circuito di sedazione, ovvero in uno stato di distacco dai propri bisogni e dalle proprie emozioni del qui e ora in quanto disorientati dalla consapevolezza del quanto nel sociale ci sia bisogno di aiuto.

E’ necessario, per superare questo stato, consapevolizzare i nostri limiti in modo da renderci utili all’altro e instaurare un rapporto d’aiuto proficuo senza perdere il contatto con i nostri bisogni, questo perché per accogliere l’altro devo prima conoscere me stesso.
La scrittura creativa serve proprio a questo: riprendere contatto con i propri bisogni ed emozioni partendo da semplici esercizi come “mi piace - non mi piace” svolto lo scorso incontro o come la favolistica e il racconto su cui si lavorerà che sono molto efficaci come restituzione del concreto. Ognuno di questi lavori è una traccia che lasciamo più o meno consapevolmente e che parla in ogni caso di noi e della nostra storia, soprattutto di quella parte che non abbiamo fatto parlare.
Nascondere una parte di sé è un fenomeno che si realizza quando ci troviamo vincolati dalle aspettative dell’altro verso di noi ( ad es. se sono considerato dall’altro una persona profondamente altruista che non dirà mai di no sarò ancora più portato ad essere sempre e comunque disponibile) che condizionano il nostro modo d’essere.
Riprendendo i concetti già accennati nello scorso ciclo d’incontri, sappiamo che uno degli assiomi della comunicazione è che è IMPOSSIBILE NON COMUNICARE; infatti, i nostri gesti, la nostra postura e la nostra espressione già di per se trasmettono qualcosa di me all’altro, anzi la nostra comunicazione è per il 60-80% (a seconda delle scuole) non verbale.


Parte Esperienziale


1° fase: Silvia chiede ai partecipanti dell'incontro di prendere carta e penna, e di scrivere, bello grande e in maiuscolo, dall'alto in basso del foglio, il proprio nome. Una volta fatto, ci dà la consegna di scrivere, per ogni lettera del proprio nome, una parola che ci rappresenti, la prima che ci viene in mente. Tempo 10min, con accompagnamento musicale.


2° fase: Silvia chiede di scegliere un compagno e successivamente di posizionarsi uno davanti l'altro. La consegna è di scambiarsi i fogli con l'acrostico del proprio nome, osservarsi per un po di tempo  ed infine scrivere per ogni lettera del nome del compagno una parola che lo rappresenti. Tempo 10min, con accompagnamento musicale.

3°fase: Silvia chiede di restituire il foglio al possessore originario e - per chi lo volesse fare - di leggere ciò che l'altro ha scritto. L'esperienziale si conclude ringraziando il compagno che ha condiviso l'esercizio.

martedì 20 novembre 2012

Incontro Ra.Mi. - 20 NOVEMBRE 2012

"Giuseppe Caserta"


Il guaritore ferito / La relazione d'aiuto




Perché sentiamo l’esigenza di aiutare le persone?
Questa attitudine può essere considerata una caratteristica in noi innata a livello biologico, tant’è vero che siamo una delle poche specie capaci di empatizzare precocemente con i nostri simili.
Recenti studi hanno scoperto che esistono dei neuroni, chiamati neuroni specchio, che riproducono la stessa attività cerebrale che di ciò che sentiamo, cioè di fronte all’attività o comportamento di un'altra persona attiviamo le stesse aree cerebrali cui è legata quell’attività o comportamento (ad es. la persona di fronte a me sta bevendo un bicchiere d’acqua: io in misura minore attiverò quelle stesse aree cerebrali interessate).
Proprio per questo, quando ci troviamo di fronte ad una persona che soffre proviamo sofferenza anche noi, pur non essendo implicati nella condizione di dolore di questa, percepiamo l’impatto emotivo della situazione.

Bisogna considerare che ciò che ci spinge ad aiutare l’altro non è solo un bisogno altruistico, ma anche un bisogno egoistico.
Quest’ultimo non va inteso in senso negativo, anzi, un sano egoismo è la base per aiutare efficacemente gli altri: quando si aiuta l’altro si deve ricordare che la persona in difficoltà ha bisogno di qualcuno che abbia un “io” forte, cioè una buona conoscenza di sé delle sue dinamiche e di cosa sta cercando, o che comunque sia consapevole di essere alla ricerca di una motivazione.
Se manca questa consapevolezza si possono causare danni alla persona che invece si voleva aiutare.

I rischi nella relazione d’aiuto sono molteplici e dovuti alla grande responsabilità che ci veniamo ad assumere quando qualcuno ci affida un momento difficile della sua vita e chiede a noi di aiutarlo a venirne fuori.
A partire da questo momento ci troviamo esposti a tutta una serie di fattori: il senso d’impotenza, la pressione delle aspettative che il contesto ha su di noi, in specifico quelle dei genitori o parenti sulla guarigione del figlio.
Tali pressioni possono portarci a sbagliare per dimostrare di essere capaci e ciò non è utile all’altro perché in realtà non lo stiamo aiutando né a noi (in questo caso si parla di curatore ferito).

Un primo errore che si può fare è quello di sostituirci all’aiutato nel risolvere un suo problema, piuttosto che sostenerlo e fornirgli i mezzi necessari a superarlo da solo, qualora ne siamo capaci.

Alice Miller (psicoterapeuta) afferma nel suo libro “Il dramma del bambino dotato” che è la persona che aiuta la prima ad avere bisogno di aiuto. Solitamente chi ha predisposizione ad ascoltare molto gli altri, ha sviluppato questa capacità sin da piccolo. La Miller, al riguardo, fa spesso l’esempio del “bravo bambino”: un bambino che ha dovuto sempre rispondere alle aspettative del contesto attorno (genitori, insegnanti ecc.) svilupperà una predisposizione a sintonizzarsi sullo stato d’animo dell’altro perché percepisce ciò che vuole l’altro. Il pericolo è, in questo caso, che si perda di vista cosa si vuole veramente perché troppo concentrati nel rispondere alle esigenze altrui e in questo modo si viene a perdere una parte di se stessi a causa delle continue rinunce. La soluzione ottimale è quella di cercare un equilibrio: essere consci di questa situazione avendo al contempo un occhio interno, cioè rimanendo sempre in contatto con i propri bisogni.

Tornando alla relazione d’aiuto, l’altruismo, che ne è alla base, è una forma di difesa molto più evoluta dell’angoscia, perché rafforza l’autostima, ci fa sentire utili, ma non è un male se gestito bene; costituisce invece un problema quando è prevaricante e ci spinge a fare di più di quello che l’altra persona ci sta chiedendo, proponendo situazioni che l’aiutato non riesce a superare o cercando di risolvere problemi irrisolvibili. In questo caso l’errore sta nel perdere il contatto con i bisogni dell’altro.

Una cosa fondamentale nella relazione d’aiuto è avere sempre persone con cui confrontarci, nel senso che la persona in difficoltà siamo anche noi e ci vuole sempre qualcun altro con più esperienza e competenza che ci dà la sua opinione e ci aiuta a capire cos’è che noi siamo chiamati a fare e come operare.
In mancanza il rischio è quello di andare incontro al burn out, presente in tutte le forme di relazione d’aiuto, che causa la nostra morte simbolica come “care giver”. Normalmente quando si aiuta l’altro si parte con un carico d’entusiasmo e di attese, ma arriva un momento in cui necessariamente ci si trova ad affrontare situazioni statiche che provocano frustrazione rabbia e quindi insoddisfazione. E’ a questo punto che diventa fondamentale una figura di riferimento con cui confrontarsi, in mancanza la situazione non può che degenerare anche a scapito dell’aiutato: se per la situazione di difficoltà ci si chiude in un atteggiamento di allontanamento dalla persona aiutata, dopo averci instaurato un rapporto duraturo ed essere entrati nel suo mondo, l’impatto è molto negativo per quest’ultima, ciò perché col tempo si diventa una presenza di riferimento per l’aiutato che ha interiorizzato la nostra figura.
In tali situazioni vengono ad accumularsi sentimenti come rabbia, distacco emotivo e insofferenza sia verso i colleghi sia verso l’aiutato e i suoi familiari fino a portarci ad un allontanamento tale da essere inservibili come aiutatori. Tutto ciò si ripercuote anche sulla vita di tutti i giorni perché questo bagaglio lo portiamo anche a casa e può portarci a essere cinici con le persone a cui teniamo e anche a estrometterle: per questo è fondamentale avere una persona di riferimento per esprimere queste sensazioni e sentimenti, in modo da alleggerire il carico di pressione che si sta portando.
Un modo per affrontare il problema sta anche nella ricerca spirituale perché, come sosteneva Jung, questa ci porta ad una più profonda riflessione e quindi ad una migliore conoscenza del nostro sé.

I sintomi del burn out non sono chiaramente visibili, perlopiù si manifestano in forma di velata insoddisfazione nel non capire più cosa si sta facendo esattamente, discussioni su aspetti collegati all’attività (ad es. stipendio, familiari dell’aiutato, colleghi ecc.), il parlare continuamente del proprio lavoro negli altri ambiti di vita; si innesca così una spirale che ci porta a stare sempre più male sia nell’ambiente di lavoro sia con gli altri in generale e può sfociare anche in un’aggressività mal indirizzata.

mercoledì 7 novembre 2012

Incontro Ra.Mi. - 6 NOVEMBRE 2012

"Alle radici della Fede"



- Il Credo - 




(1° incontro di spiritualità - un obiettivo chiaro, un progetto preciso, un'azione convinta



Io Credo
In Dio, Padre onnipotente,
Creatore del cielo e della terra;
e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore,
il quale fu concepito dallo Spirito Santo,
nacque da Maria Vergine,
patì sotto Ponzio Pilato,
fu crocifisso, morì e fu sepolto;
discese agl’inferi,
il terzo giorno resuscitò da morte;
salì al cielo,
siede alla destra di Dio Padre onnipotente;
di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
Credo nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica,
la comunione dei santi, la remissione dei peccati,
la resurrezione della carne, la vita eterna.
    Amen


1° PARTE: CATECHESI

Si è deciso, in questo nuovo ciclo d’incontri di spiritualità, di partire da questo Simbolo Apostolico – il Credo – perché costituisce la professione di fede che gli Apostoli, subito dopo la morte di Gesù, affermarono in occasione del Concilio di Gerusalemme, che fu un incontro tra le colonie dei Cristiani.
Alcune professioni di fede semplici, esistevano già in precedenza, quando Gesù era ancora in vita (ad es. “Gesù è il Signore” dalla Lettera ai Romani cap.10), ma è dal Concilio di Gerusalemme che proviene il Credo così come professato ancora oggi in seno alla Chiesa Cattolica. Il Credo prende il nome di “Simbolo”, perché in Grecia il simbolo (una tessera) veniva utilizzato nell’accordo tra due famiglie; questa tessera veniva spezzata in due e quando si stabiliva il patto queste due parti venivano ricongiunte (dal greco simbolo significa “mettere insieme”).
Il Simbolo è stato utilizzato dagli Apostoli perché è un oggetto che rimanda alla realtà presente.
In questo primo incontro ci soffermiamo sulla prima parte di questo Simbolo Apostolico: “IO CREDO”.
Per prima cosa bisogna osservare che in un discorso di fede c’è sempre un soggetto, una persona, e l’”IO” cui ci riferiamo qui va inteso come ogni persona, ognuno di noi che decide se stare in questo IO oppure no.
La parola “CREDO” deriva dall’indiano sanscrito e significa “porre fede”, ovvero aderire totalmente a qualcuno o qualcosa, in questo caso Dio.
Per i primi cristiani Dio è presente, innanzitutto, nella sua Parola, cioè nell’Antico Testamento; dunque aderire alla fede significava anche aderire alla Parola, e successivamente agli insegnamenti di Gesù e dei suoi discepoli.
Non si parla quindi di qualcosa di astratto, c’è un’identità precisa in questa Preghiera: professando il Credo mi abbandono totalmente a Dio.

La FEDE è una virtù teologale, soprannaturale e ci viene donata al momento del Battesimo; anche se donata, però, rimane un atto libero e personale che in parte dipende anche dalla nostra volontà di credere e quindi di alimentare la fede, una collaborazione col Signore.

Volontà e sentimento, però, non sono sufficienti in questo atto che deve essere sostenuto anche dalla RAGIONE.
Al riguardo Giovanni Paolo II, nell’Enciclica “Fides et Ratio” del 1998, afferma che fede e ragione sono le due ali che permettono allo spirito umano di innalzarsi verso contemplazione della verità: la sola ragione non consente di arrivare alla verità, ma lo stesso vale per la sola fede.
Altro aspetto della fede è che ci inserisce nell’Eternità, ci porta alla vita eterna attraverso il Battesimo, che ci permette di godere dell’Amore di Cristo.
La Pazienza è determinante nella fede, perché la verità è un qualcosa che ci viene svelato mano a mano, quindi l’abbandonarsi a Dio deve essere totale e costante.
Infine la fede si riceve per trasmissione, a partire dagli Apostoli che per primi hanno annunciato l’avvento di Cristo, la sua Resurrezione, e si riceve all’interno di una COMUNITA’: il cristiano sa che non può crescere nella fede in Dio se non con i suoi Fratelli, all’interno di quella comunità che fa capo alla Chiesa Cattolica.
 

2° PARTE: SPUNTI DI RIFLESSIONE

L’“Io Credo” rappresenta il cuore della professione di fede nell’ambito della Chiesa Cattolica.
Riprendendo l’immagine delle due ali, fede e ragione, un interrogativo che ci si potrebbe porre è:
“se non volessi volare?”, “se a me bastasse la sola ragione?”. Del resto è con la ragione che posso calcolare, progettare, difendermi, auto-conservami nella vita concreta.
Se non sento, se non vedo, se non tocco, come faccio ad affidarmi? Nella vita quotidiana sperimento la fiducia nei confronti di altre persone, che posso vedere e toccare, ma come faccio ad vere la stessa fiducia, fare lo stesso affidamento in qualcosa che no posso vedere né toccare?



Passo dei Vangeli Apocrifi:

Queste sono le parole segrete che Gesù il Vivente ha detto e Didimo Giuda Tommaso ha trascritto:
Egli disse: - Chiunque ascolterà queste  parole  non  gusterà  la morte.
Gesù disse: - Colui che cerca non cessi dal cercare, finché non trova e quando troverà  sarà commosso, e quando sarà stato commosso contemplerà e regnerà sul Tutto.
Gesù  disse: Se coloro che vi guidano vi dicono: «Ecco! Il Regno è nel cielo», allora gli uccelli del cielo vi saranno prima di voi. Se essi vi dicono: «Il Regno è nel mare», allora i pesci vi saranno prima di voi. Ma il Regno è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, sarete conosciuti e saprete che siete figli del Padre Vivente. Ma se non conoscerete voi stessi, allora sarete nella privazione e sarete voi stessi privazione.     
( dall’incipit del Vangelo di Tommaso) 


Conclusione:


Salmo 1
1 Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi,
non indugia nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli stolti;
2 ma si compiace della legge del Signore,
la sua legge medita giorno e notte.
3 Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua,
che darà frutto a suo tempo
e le sue foglie non cadranno mai;
riusciranno tutte le sue opere.
4 Non così, non così gli empi:
ma come pula che il vento disperde;
5 perciò non reggeranno gli empi nel giudizio,
né i peccatori nell'assemblea dei giusti.
6 Il Signore veglia sul cammino dei giusti,
ma la via degli empi andrà in rovina.