martedì 6 dicembre 2011

7° INCONTRO - 6 DICEMBRE 2011

"NOI siamo colloquio"


- L'Altro e la Comunicazione - 



(2° incontro del corso di formazione Ra.Mi.) 





 
In questo secondo appuntamento, la prima parte sarà tecnico-esplicativa e verterà sulla presentazione dei contenuti teorici necessari a stabilire la piattaforma comunicativa in cui dovremo muoverci in seguito,ossia l'oggetto proprio di ciò che affronteremo.

La comunicazione può assolutamente essere anche uno strumento!

Ognuno di noi sta con l'altro con ciò che ha in mano di proprio, con quello che esso stesso è nel momento presente ( che non è mai poco!!! ), e quindi non c'è un solo e giusto ed esatto modo di stare con l'altro; dunque, capire cosa sto dicendo, cosa sto comunicando a livello sia verbale che non verbale, è un qualcosa di decisivo ed importantissimo, ed è ciò che può rendere autentica, congruente ed efficace la relazione con l'altro. Quanto appena detto è ancora più cruciale nel caso in cui ci si rapporti con l'altro in condizioni di bisogno o di mancanza particolare di quest'ultimo, che possono caratterizzarsi come problematiche e/o disfunzioni psichiche o comportamentali o di vario genere differente.

Perché ci interfacciamo con l'Altro?

L'ultima volta ci eravamo lasciati con una fondamentale questione, quasi mastodontica per la portata esistenziale che può assumere, in cui si poneva la considerazione che, in certi casi, non si riesce proprio a dire il “no” di fronte a delle richieste dell'altro che si presentano abbastanza costantemente ed insistentemente ( un esempio può essere quello degli ambulanti stranieri o molto bisognosi ): che cosa c'è dietro di questa impossibilità relazionale nei confronti di un altro il quale si trova in evidenti condizioni di indigenza?
Potrebbe essere magari una parte nascosta di noi stessi ad aver bisogno di dire sempre il “si”, in quanto rivede nell'altro una sua latenza, una sua mancanza?
Ebbene, continuiamoci a domandare ininterrottamente:

Che cosa cerco nella relazione con l'altro?
In che modo mi pongo dentro la relazione con l'altro?

Nel caso delle esperienze ( lavorative e non ) a contatto con soggetti disabili, magari anche molto gravi e pluri-minorati, si ha davanti sempre una persona umana, ma spessissimo si hanno anche difficoltà molto forti nel riconoscere effettivamente la presenza di fronte a sé di un essere umano, cioè ad intravedere una corrispondenza con quello che è per noi il corrispettivo di umanità, poiché l'essere umano di norma ha delle funzionalità determinate ( pensiero, azione ecc..). Dunque, come mi interfaccio e come comunico con un essere umano che non rispecchia la normalità funzionale suddetta, che non si esprime facilmente e non si muove e non si relaziona nell'immediato così come noi stessi facciamo solitamente? E, ancora più alla radice, chi è tale essere umano che non rispecchia la cosiddetta normalità umana?

Immaginiamo un soggetto contemporaneamente cieco muto e sordo, immaginiamo un corpo che sia come uno scafandro, in cui può darsi che ci sia un essere che ha cognizione e che potenzialmente capisce: ma cosa capisce? e come si può fare a capire cosa esso stesso ha acquisito ed incamerato dalla relazione comunicativa con l'operatore in questione?
Si tratta di attuare un'interpretazione, molto ostica e difficoltosa, da parte dell'operatore o dell'educatore, di cercare di leggere ciò che in pratica appare come illeggibile, partendo anzitutto da un fattore comunicativo essenziale: il silenzio! (...a cui forse dovremo riabituarci...)
Il silenzio è l'origine pre-linguistica della parola, va considerato non meramente come assenza comunicativa ma come l'occasione per attuare una comunicazione più forte ed efficace:

il comunicare non coincide essenzialmente e solo con il parlare, con il livello verbale o della parola nuda e cruda!!!

Per riprendere dati già accennati la scorsa volta, è importante sapere che la nostra comunicazione è prevalentemente non verbale, ossia si attua per la maggior parte tramite la nostra postura, il nostro tono vocale, il nostro abbigliamento, la nostra volontaria dislocazione nello spazio, il nostro orientamento visivo; insomma, arriva molto di più e molto più intensamente quello che è il contenuto corporeo della nostra comunicazione piuttosto che le frasi che si stanno dicendo, ossia il tono con cui pronunciamo il nostro discorso, la postura con cui ci poniamo in relazione con l'altro, la gestualità con cui trasmettiamo il concetto inteso ecc...!!!

Cosa significa “congruenza comunicativa”?

Per dare dei riferimenti più precisi, dobbiamo dire che un movimento statunitense di ricercatori e di studiosi, cosiddetto “Scuola di Palo Alto” ( Paul Waszlavich ed altri... ), affermò che “la comunicazione è comportamento”; ancor di più, attorno agli anni '60 dello scorso secolo dalla stessa “Scuola di Palo Alto” vennero postulati cinque assiomi o regole fondamentali della comunicazione umana: comprenderli e consapevolizzarli potrà servire ad utilizzare in maniera più efficace e più strategica la nostra comunicazione con l'altro!!! (...come detto sopra: la comunicazione può assolutamente essere anche uno strumento! )
Il non verbale è in genere da noi conosciuto e contattato molto di meno rispetto al piano verbale delle nostre occasioni di comunicazione con un'altra persona; si potrebbe dire che ormai nel mondo d'oggi è davvero difficile parlare con una persona senza che ci sia un motivo specifico e strumentale per far ciò, senza che ci sia un contenuto determinato da dover comunicare, e cioè per il puro piacere di farlo, per il semplice gusto di contattare l'altra persona e di accoglierla e di ascoltarla. Oltretutto, oggi dovremmo dire onestamente che si è quasi del tutto disabituati al silenzio nell'altro, e forse questa realtà si riscontra anche nel contesto del volontariato, cioè si è poco avvezzi ad una mancanza prolungata di risposte e di feedback comunicativo nell'altro che si ha di fronte.
Ebbene, veniamo al dunque:

Prima Condizione della Comunicazione: Congruenza.

-La persona umana è “congrua” nel momento in cui dispone di tutti i suoi canali comunicativi ( verbali e non verbali ) allineati ed orientati verso il senso che si intende esprimere nella comunicazione-
Esempio: se, sul piano verbale, intendo comunicare il mio amore per l'altra persona, ma contemporaneamente, sul piano non verbale, mi pongo come fisicamente distante dall'altro, oppure non gli rivolgo mai lo sguardo, oppure impiego un tono della voce poco partecipe o non emotivamente acceso, ecco che il risultato è proprio una “comunicazione incongruente”.

Nel dialogo e nella comunicazione con un altro che si trova in una condizione, parlando in termini molto generici, di difficoltà o di disagio, quanto appena detto assume una rilevanza decisiva e cruciale, soprattutto nei casi in cui ci si trovi a relazionarsi con una persona psicotica, la quale è sì affetta da problematiche mentali magari anche molto gravi ma non è mai una persona stupida od inetta, cioè non è mai una persona che non ha la capacità di intendere cosa gli sta di fronte oppure come avvengono la relazione e la comunicazione con lei stessa.
Ricordiamoci che noi tendiamo ad entrare molto frequentemente ( se non quasi sempre ) nella relazione con l'altro, e soprattutto con l'altro in difficoltà od in stato di menomazione e di bisogno, impiegando dei pregiudizi, cioè facendoci portatori di giudizi che sono stati formulati prima di aver avuto una certa esperienza con l'altro.
Ebbene, ribadiamo l'importanza di capire che una persona psicotica ( per restare sull'esempio di cui sopra ) non è una persona stupida, ma è una persona che assolutamente può intuire la nostra eventuale incongruenza comunicativa ( vedi primo assioma della comunicazione: Congruenza ), pur nel mezzo di forti difficoltà sul piano cognitivo e/o relazionale. La persona con problemi mentali è un po' come un nervo scoperto gettato nel mondo circostante, magari con una sensibilità accentuatissima e straordinaria, ed è dunque quasi sempre in grado di comprendere pienamente se la persona che ha davanti gli sta comunicando qualcosa in maniera incongruente e quindi in maniera inautentica.
Certamente, può capitare di trovarsi a parlare con una persona psicotica adulta attivando una comunicazione praticamente bambinesca o comunque molto elementare, bypassando così molto di quello che concerne la sua dimensione esistenziale ed affettiva ed emozionale: in questi casi, dobbiamo sapere che il messaggio d'incongruenza arriva comunque al destinatario con problemi di psicosi e rimane chiaramente presso di lui, anche se quest'ultimo non può arrivare a compiere analisi di alto livello cognitivo od a fare considerazioni notevoli sulla verità e la falsità di ciò che sta ricevendo. Dobbiamo dire che stare attenti alla congruenza della nostra comunicazione potrebbe essere anche un'ottima metodologia per evitare di doversi confrontare con crisi comportamentali o magari anche con eccessi di aggressività e di violenza in chi ci sta di fronte ed è portatore di un disagio psichico di varia natura: la congruenza porta all'autenticità e quindi all'efficacia della comunicazione con l'altro, ed è il presupposto fondamentale della comunicazione umana, a maggior ragione quando si tratta di interfacciarsi con situazioni che sono decisamente altre da noi e che comportano oggettive difficoltà relazionali.
Per riprendere quanto accennato sul pregiudizio, possiamo affermare che pregiudicare non è necessariamente un fatto negativo, ma è in sé e per sé un'azione neutra, la quale addirittura ha avuto funzioni importantissime per l'evoluzione della specie umana ( pensiamo a quando, di fronte ad un pericolo, come una finestra aperta od un pozzo profondo, si effettua un pregiudizio, cioè si afferma che non ci si deve gettare da quella finestra poiché il risultato sarebbe letale per noi stessi, anche se l'esperienza del gettarsi non la si è ancora fatta ecc...).
Ognuno di noi si sofferma dinanzi alla soglia costituita dall'Altro con un pregiudizio, e questo è un presupposto esistenziale assolutamente valido per l'essere umano: è così, nel bene e nel male.
L'altro non è solo gioia, ma, prima di esser bellezza e ricchezza, è per noi paura, in quanto confronto con l'inatteso, con l'ignoto, con l'inesplorato, e costituisce un incontro trasformativo, poiché nel dialogo con l'Altro a nostra volta si diventa altri, cioè ci si evolve e si cambia e si contattano nuclei personali molto profondi e misteriosi, i quali attraggono ma allo stesso tempo fanno scaturire paura e timore.
Il pregiudizio esiste: dobbiamo cercare di accettarlo e di consapevolizzarlo e di capire cosa esso significhi e cosa esso stesso possa dire di noi stessi nel determinato momento in cui ci interfacciamo con l'Altro.
Diciamo questo perché, tornando al discorso di prima sulla relazione con persone pluri-minorate o comunque fortemente menomate, spesse volte si fa l'errore di attivarsi quasi freneticamente per riempire il “ritardo” della risposta e quindi il silenzio, poiché non si tollera il silenzio, poiché si concepisce superficialmente il silenzio come assenza comunicativa, poiché non si è abituati a vedere nel silenzio l'origine pre-linguistica della parola: questo è un errore perché si dimentica così di star parlando ad una persona la quale abita e sosta pienamente dentro di tale silenzio, cioè in una situazione che è fatta, per esempio, di emozioni che non hanno collocazione vocale o cognitiva. Per accogliere efficacemente tali emozioni e quindi pienamente l'altro che si ha di fronte, bisogna trovare la strada giusta, ed anzitutto bisogna impegnare il nostro tempo sapientemente, cioè facendo un forte e prolungato sforzo di osservazione e di attesa e di analisi preliminare e di ascolto delle condizioni in cui si trova la persona umana che si ha di fronte, una persona magari con un'importante deficit comunicativo e che vive immersa nel silenzio e che è molto distante dal livello verbale della comunicazione. E' importante, tremendamente importante, evitare il più possibile di confondere l'essere umano che si ha di fronte, soprattutto se gravemente disabile, con l'interpretazione soggettiva della stessa persona umana disabile che può sorgere da parte di chi, per varie ragioni, tende a non concedersi il tempo necessario per riuscire a compiere una comunicazione efficace con la persona con cui deve operare e che deve assistere in quanto educatore. Capita frequentemente, infatti, di interpretare a lungo movimenti od istanze comunicative di vario tipo della persona disabile come rispondenti ad un certo bisogno, che può essere la fame ecc..., mentre in realtà dovrebbero essere soddisfatti con tutt'altro: dobbiamo evitare di parlare troppo, o soltanto, di noi e davvero poco, se non nulla, della persona umana che si ha di fronte.
Nella comunicazione reale autentica con l'Altro un elemento più che fondamentale è il tempo, è il darsi tempo per contattare il nostro disagio e la nostra paura, è il darsi tempo per percepire le nostre emozioni sorgenti naturalmente di fronte ad un apparente vuoto comunicativo, di fronte a quello che erroneamente pregiudichiamo nell'altro, è il darsi tempo per rendersi conto di quella che è una nostra ansia tesa a voler riempire a tutti i costi i vuoti che non siamo abituati ad accogliere ed a comprendere. Se noi invece ci poniamo nella relazione in condizioni di calma e di attesa e di reale ascolto e di osservazione, magari diverrà possibile contattare nella persona che si ha di fronte un qualcosa mai prima percepito, ovvero che magari il suo non è un bisogno di mangiare o di bere ma un bisogno di attenzione dato dal fatto che lei stessa ha percepito, in quanto per esempio non-vedente, la nostra presenza al suo fianco in maniera diversa da come l'avremmo percepita noi stessi.
Ricordiamoci sempre che per una persona non-vedente lo spazio da abitare si costituisce come una rappresentazione mentale (qualora, per giunta, ci sia il piano cognitivo a supportare la persona ), che può farsi per la maggior parte sulla base di esperienze tattili od uditive spesse volte brevi o poco rilevanti: l'esperienza del mondo di una persona non-vedente, e magari con problemi cognitivi di un certo peso, è profondamente altra da quella che di norma un essere umano può avere.
Dobbiamo darci il tempo dell'osservazione a tutto tondo, non dobbiamo correre ed affrettarci, perché i risultati potrebbero così portare a svelare ed a scoprire ed a capire messaggi altrimenti oscuri, se non proprio impossibili da cogliere e quindi molto facilmente equivocabili.
Per accogliere realmente e pienamente l'altro possiamo fare solo un passaggio, che è quello di abituarsi a de-costruire le nostre certezze e ad abitare un linguaggio più autentico, sicuramente fatto di maggiore consapevolezza riguardo al piano non verbale della nostra relazione comunicativa, riguardo cioè al tono vocale, al ritmo, alla vicinanza corporea ecc...: questo è l'unico modo che si ha per compiere la conquista fondamentale di ogni relazione con un'altra persona in condizioni di bisogno, ossia l'affidamento fiduciario!
Solo una persona che ci percepisce come autentici nella comunicazione, che percepisce come rivolti verso lo stesso unico senso tutti i nostri vari canali comunicativi in atto, potrà fidarsi veramente di noi e quindi potrà affidarsi a noi stessi.
Qual è la parte di noi stessi da cui bisogna anzitutto partire per incontrare e per comunicare autenticamente ed efficacemente con l'Altro?
In questo campo, bisognerebbe guardare con più interesse al “bicchiere mezzo vuoto”, sempre! Ciò vale a dire che la nostra risorsa più grande è sempre la nostra difficoltà, la nostra paura, il nostro fiato corto, il nostro “non farcela”: questa è la piattaforma dell'incontro con l'Altro, sempre e solo questa e di natura esperienziale. Se io contatto quella che è la mia difficoltà e ci convivo, e la accolgo e non la respingo, avrò la possibilità di accogliere con più calma e serenità l'altra persona. Se io accolgo la mia paura sorgente che arriva quando incontro un'altra persona particolarmente disagiata, malformata, problematica, e se io ascolto con profondità questa mia paura sorgente, avrò più possibilità di costruire una piattaforma comunicativa con la persona, anche se fortemente disagiata; ciò perché il mio contattare ed il mio capire la difficoltà che sorge dentro di me stesso permette di mettermi nei panni dell'altro senza, però, immedesimarmi con lui stesso, cioè permette di realizzare l'empatia!!!
L'empatia non va intesa come l'immedesimazione, ma è il perfetto contrario ed è una risorsa strategica ( cfr. “Il problema dell'empatia”, di Edith Stein ), ossia non va concepita e realizzata in quanto “tuffo nel dolore dell'altro”, poiché così facendo ci si immedesima nell'altro e si finisce per non essergli utile in assoluto. C'è un gioco di giuste distanze e di confini propri, ossia si deve capire qual è la propria giusta distanza rispetto ad un altro al fine di confrontarsi in maniera consapevole con esso stesso, ed in quanto ognuno di noi ha un approccio al contatto, anzitutto corporeo, con l'altro che è differente da quello di tutti gli altri. Si tratta di un argomento importantissimo: la consapevolezza corporea, sia sul piano comunicativo che, più in generale, sul piano esistenziale.
Immaginiamoci sempre un ragazzo pluri-minorato: il suo esserci nel mondo è definito e sintomatizzato dal suo corpo, dalla sua pelle, che è il suo filtro primario con il mondo !!! Nel momento in cui si ha una consapevolezza corporea scarsa e quindi una scarsa consapevolezza comunicativa non verbale, si può difficilmente intuire cosa passa, non tanto per la mente, ma soprattutto per il corpo della persona disabile, cioè i suoi bisogni.

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